Valeria Tron, candidata al Premio Strega col romanzo “L’equilibrio delle Lucciole”, finalista e vincitrice di molti premi letterari è conosciuta dai nostri lettori anche perché vincitrice alla “Quercia del Myr” per la letteratura sulla montagna, di cui abbiamo recentemente riferito, con un romanzo di notevole intensità narrativa: “Pietra Dolce” (Salani edizioni).
Un ossimoro che in realtà non è tale, perché la pietra dolce è il talco scavato dai minatori della val Germanasca, una delle valli valdesi minori. Una pietra facile da scolpire specialmente per Giosuè, mago benevolo della vicenda che, in qualche modo, finisce per ruotare intorno a lui, quasi più che al protagonista Lisse. E col talco Giosuè scolpisce e le sue opere popolano l’intera trama.
La storia è complessa perché intreccia i rivoli di un’unica fonte che, però, dileguano e riaffiorano fra una sponda e l’altra dell’oceano, ma principalmente nei borghi arrampicati sulle pendici della valle risonanti del clamore di una cascata quasi divina. In effetti, ma è questa una costante per le genti di montagna, il mondo di questi minatori è popolato da un panteismo trasparente in un dialogo fra uomini, animali e Creato.
Potrebbe apparire singolare per una scrittrice valdese che racconta di una valle valdese rigorosamente monoteista, ma in realtà il Creato non è assurto a divinità, è compagno di strada nel cammino dell’esistenza.
Generalmente gli scrittori alpini hanno in comune un lessico essenziale, avaro e amaro. Eppure intriso di evocazione e non detto. Nelle prime pagine l’autrice suscita i personaggi dalla materia, dal sangue e dalla pietra e loro vivono un doloroso divenire. Una parola descrive il sentimento un bagliore disvela i paesaggi.
Ma la vicenda, trattata su diversi piani temporali, non propone solo gli avari silenzi, graffiati di parole, di Rigoni Stern, Biamonti, Revelli, non c’è la disperata consapevolezza della fine, dell’abbandono.
Si tratta di una poesia collettiva, cantata attorno alla figura di Lisse dai suoi sodali: amici fraterni, o amici di maniera, uomini della scolta. Lisse, nato nei prati come figlio di una ninfa, ha molte madri, un quasi fratello (Giosuè), due grandi dolenti amori, moltissimi amici, eppure non ha cognome e soprannome. Potevano chiamarlo Ulisse, come rimpiange Giosuè, regalandogli una U, uomo che dialoga con gli dei, ma mentre Ulisse solca le rotte del mondo, Lisse è prigioniero della sua valle dove giganteggiano la sua voce, la sua fama e il suo dolore.
Così, fa le genti valdesi (che i miracoli li trovano solo nelle Scritture) si forma una combriccola di costruttori di miracoli animata da un amore reciproco e debordante.
L’autrice fa risuonare le valli come raramente fanno i suoi colleghi montanari: il fragore della cascata, le canzoni potenti di Lisse e dolci di Alma, e quelle della tradizione che fanno da ponte fra il Piemonte e l’Argentina. E poi i dialoghi intensi e le risate, le voci degli animali, della valle e delle tormente.
E nell’intreccio dei piani temporali ognuno dei componenti della compagnia di Lisse conserva scampoli di passato, segreti che affiorano o che restano nel silenzio. E la densità della narrazione nasce proprio dall’intreccio di queste vicende in un caleidoscopio di sentimenti: dall’ironia, al dolore, alla solidarietà, all’amore. Un intreccio di protagonisti uniti da un sapere comune, ma singolari nel senso più ampio della parola. Per tutti il gigante fanciullo Lumière, attraversato ed «elettrificato» da un fulmine, dotato di singolari poteri con un ciuffo di capelli che fuma e le doti di un oracolo. Quasi la storia di un «supereroe».
“Pietra dolce”, in fondo, è un romanzo metaforico perché individua il divenire dei destini, la casualità di alcuni accadimenti che si trasformano in un impegno a vita, come è per Mina e Giosuè a cui il fato ha consegnato Lisse. O come è per Alma accolta senza tentennamenti, lei che dall’Argentina cercava la minestra della cascata. Come tanti che disperati cercano la stessa minestra. Metaforico perché propone una disciplina di vita fondata sull’umanità, sulla fraternità.
Qui non ci sono i sermoni, le promesse, le giaculatorie, i giuramenti per servire Dio. Mina si reca a pregare nella cattedrale del suo orto. Dove la benevolenza del Signore regala la vita. È lì, fra gli ortaggi, che lei dispiega la potenza della sua preghiera.
Con sorpresa, in un messaggio che la stessa Valeria Tron mi ha inviato per motivi diversi ho trovato lo spirito del romanzo, il suo movente. Ve lo propongo qui.
“Ripeto a me stessa che anche se è un mulino a vento, tanto vale tentare, prima che il coro si annichilisca e si perda di vista la bellezza che possiamo veicolare. La pace che è necessaria, il senso della relazione. Il senso della critica. Ho sempre creduto (per vanità o fortuna, penso) di avere il dono di leggere il tempo e prevederlo un poco. Vorrei tanto essermi sbagliata in passato, e sbagliare ora, che vedo piovere solitudini e isolamenti. Rabbia e diffidenza. Devo sembrare matta, o illusa, a pensare che insieme si possa invertire questa china”.