Quest’anno è uscito un nuovo volume a cura dello storico cuneese Aldo Alessandro Mola, ed. BastogiLibri, Romadal titolo «1925 Verso il regime» che tratta l’ascesa del regime di Benito Mussolini verso il totalitarismo.
Pertanto, partendo da quest’opera, abbiamo voluto intervistare lo stesso Mola per approfondire alcune tematiche che di solito vengono purtroppo trascurate, ma che invece chiariscono alcuni punti riguardanti uno dei periodi storicamente più importanti per l’Italia.
Molti indicano Vittorio Emanuele III quale vero responsabile dell’ascesa di Mussolini al potere, ma fu davvero così?
No, nel modo più assoluto. Mussolini fu indicato come futuro presidente del consiglio da tutti i rappresentanti delle istituzioni italiane del tempo, tra cui i presidenti di Camera e Senato, dai gruppi parlamentari, oltre al mondo industriale, finanziario e della Chiesa. Veniva visto da tutti come un argine dalla violenza rossa che stava dilagando nella penisola. Pertanto il re ha semplicemente preso atto di ciò e gli conferì l’incarico di formare un nuovo governo, fermo restando che fu proprio il Parlamento a concedergli la fiducia. Il primo governo Mussolini comprese gli esponenti di tutti i partiti costituzionali presenti alla Camera, ossia nazionalisti e liberali, ma anche i democratici sociali di Giovanni Antonio Colonna e i popolari di Don Sturzo, senza dimenticare che il sottosegretario all’industria fu Giovanni Gronchi, futuro Presidente della Repubblica Italiana. I deputati fascisti erano solo 35, quindi un’esigua minoranza. Senza dimenticare che anche il Senato conferì a Mussolini una larghissima maggioranza, vi si contavano solo 2 iscritti al Fascismo su 400 totali, ma solo in 19 votarono contro.
Non si può, pertanto, attribuire la responsabilità al re, poiché la responsabilità della sua ascesa al potere è corale.
Nel libro usa la parola «totalitarismo», ma secondo lei si trattò effettivamente di un regime totalitario? Infatti, in Italia esistevano due istituzioni che conservarono un peso non indifferente, ossia il Papa e il Re che rappresenteranno anche la differenza con la Germania di Hitler.
Direi più la corona, poiché nel 1922 il pontefice non era ancora un capo di Stato, cosa che avverrà solo nel 1929, quando ormai Mussolini è a capo di un governo con un sistema a partito unico.
In ogni caso ci fu un’influenza importante della Chiesa, in quanto la quasi totalità degli italiani erano cattolici e usi a celebrare la propria vita con i sacramenti.
Detto ciò, rimasero intatte le prerogative del re, che poteva revocare l’incarico conferito al duce in qualsiasi momento, in caso di un voto contrario alla Camera o al Senato o comunque un dissenso significativo che poteva portare il re a fare questo passo, cosa che fece il 25 luglio del 1943. In quel contesto non fece un colpo di stato, ma fece uso della sua prerogativa, sostituendolo con il maresciallo Pietro Badoglio. Mussolini non venne arrestato, ma fermato, ossia si trattava di un semplice fermo di Polizia, in quanto non gli venne mosso nessun capo d’accusa e appena fermato scrisse una lettere a Badoglio in cui si dichiara a disposizione della corona e del governo per realizzare gli obiettivi che quest’ultimo si era assunto.
Tutta un’altra storia riguarda la Repubblica Sociale Italiana.
Ad un certo punto nel libro c’è una frase che mi ha colpito: «Mussolini era caratterialmente un dittatore: perciò si circondò di persone che non gli dicevano la verità».
È stato l’errore più grosso del duce?
Dipendeva dalla sua personalità, voleva circondarsi di persone molto obbedienti, magari capaci ma allineate a lui, o mediocri, così che fosse sicuro di risultare il migliore. Voleva il rapporto esclusivo con il sovrano per portargli il “volere” del popolo italiano. Infatti, quando una figura emergeva la metteva da parte. Un esempio è Dino Grandi che Vittorio Emanuele III accoglie come cugino conferendogli il collare dell’Annunziata, ma Mussolini per emarginarlo lo inviò ambasciatore a Londra.
Qui si comprende come nel 1925 Mussolini riesca diventare capo del governo, oltre ad assumere le cariche di ministro dell’interno che recupera dopo la crisi Matteotti, di ministro della guerra, della marina e dell’aeronautica, oltre a quello di ministro degli esteri.
Un’altra tematica che si affronta nel libro e quella del ruolo che avrebbe potuto avere D’Annunzio sulla caduta del regime, ma il poeta preferì sfruttare la sua fama per un ritorno personale. Come mai?
Perchè D’Annunzio era uno scrittore, un poeta, un artista, quindi tra virgolette un emotivo. Sapeva trascinare le persone in alcuni momenti, ma non aveva una visione politica, cosa che dimostrò con l’impresa di Fiume. Fu una persona di grande talento, ma sostanzialmente egocentrica, molto soddisfatta di sé, ma incapace di condurre un partito.
Arriva a Fiume senza un vero progetto politico, è convinto che ci sarà un’assunzione di responsabilità istituzionale, ma il governo lo sconfessò e nessuno dei partiti lo appoggiò, anche i nazionalisti cercano di convincerlo a tornare indietro. Non ha prospettive o appoggi internazionali.
La Carta del Carnaro è indubbiamente suggestiva, ma non venne mai attuata.
Quando venne firmato il trattato tra Italia e Jugoslavia, il territorio di Fiume divenne un corpo separato che potrà poi essere annesso all’Italia. Tuttavia, il vate non se ne andò e allora Giolitti ordinò che fosse cannoneggiato.
D’Annunzio fu uno che poteva essere potenzialmente alternativo, ma senza averne le qualità.
Mussolini, diversamente dal vate, arrivava dal Psi, dalla vita del partito. Non scriveva canzoni poetiche, ma scriveva per il Popolo d Italia articoli politici molto abili e riuscì, infatti, a costruirsi un consenso.
Infine, vorrei che spendesse due parole su un «italiano che amava l’Italia», come lei stesso lo ha definito, ossia Umberto II che preferì l’esilio al rischio di una guerra civile.
Un tema che affronterò nei mesi prossimi in maniera più analitica
In ogni caso, Umberto II è stato al centro di molte opere che però hanno riguardato più la sua vita culturale e di corte che quella istituzionale
Umberto II percepì il rischio di una guerra che avrebbe potuto dividere gli italiani, specialmente dopo quello che definì un gesto rivoluzionario, ossia l’avocazione delle funzioni di capo dello Stato da parte del governo che poi il 13 giugno le conferì a De Gasperi. A quel punto ci sono due capi di Stato in Italia ed è una situazione che avrebbe potuto portare allo scontro armato.
De Gasperi, allora, fece credere a Umberto di Savoia che se avesse lasciato Roma, sarebbe poi stato richiamato in Italia successivamente, ma rimase vittima di un trucco come lui stesso lo definì.
Doveva essere una soluzione di tipo transitorio, ma l’Assemblea Costituente proibì il rientro in Italia dei reali e questo valeva sia per Vittorio Emanuele III che per Umberto II. La sua scelta di andarsene dall’Italia fu un gesto di grande civiltà, poiché permise di risparmiare un possibile conflitto al suo Paese, in quanto molti appartenenti alle forze armate non volevano venire meno al giuramento verso il Re.