Una nuova ricerca condotta presso il Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi (ico) dell’Università di Torino e pubblicata su Scientific reports ha rivelato il meccanismo chiave attraverso il quale la depressione riduce l’attività dei neuroni della corteccia prefrontale mediale, una regione del cervello cruciale per la regolazione delle emozioni e la risposta allo stress.
Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, la depressione colpisce il 5% della popolazione adulta in tutto il mondo, rappresentando una grave sfida per la salute pubblica. I trattamenti attuali spesso falliscono a causa di una comprensione incompleta delle sue basi biologiche. Questo studio sposta l'attenzione dai tradizionali deficit serotoninergici nella depressione ai deficit di attività nervosa nella corteccia prefrontale mediale, una regione cerebrale fondamentale per la regolazione dell'umore e dello stress.
Gli autori dello studio hanno osservato che nelle cavie che sviluppano un comportamento 'depressivo' in seguito a stress cronico, i neuroni piramidali dello strato 2/3 della corteccia prefrontale diventano meno eccitabili e mostrano un maggior adattamento della frequenza di scarica. Questo significa che, quando vengono stimolati, i neuroni faticano a mantenere l’attività elettrica necessaria per elaborare correttamente gli stimoli provenienti da altre aree cerebrali.
«Abbiamo scoperto che nelle cavie suscettibili allo stress cronico, i neuroni della corteccia prefrontale perdono parte della loro capacità di rispondere in modo sostenuto agli stimoli eccitatori», spiega Anita Maria Rominto, ricercatrice del Nico prima autrice della ricerca.
«Questo deficit di eccitabilità potrebbe rappresentare una base cellulare della ridotta attività della corteccia prefrontale osservata nei pazienti con depressione».
L’analisi elettrofisiologica ha mostrato che la minore eccitabilità neuronale è legata a un aumento dei meccanismi di adattamento mediati dai canali del potassio (K⁺), responsabili di regolare il ritmo di scarica neuronale. In particolare, i ricercatori e le ricercatrici hanno rilevato un innalzamento della soglia di attivazione e un’accentuazione della iperpolarizzazione postuma, due fenomeni che rendono più difficile per i neuroni generare e sostenere potenziali d’azione.
«Questi risultati suggeriscono che un’iperattività di specifici canali del potassio possa contribuire alla disfunzione della corteccia prefrontale nei disturbi depressivi» aggiungono Filippo Tempia ed Eriola Hoxha ricercatori al Nico dell’Università di Torino e ultimi autori dello studio.
«Comprendere questo meccanismo apre nuove prospettive per lo sviluppo di terapie mirate a normalizzare l’attività neuronale».
Lo studio ha utilizzato un modello animale di depressione basato sullo stress da sconfitta sociale cronica, un protocollo sperimentale ampiamente validato. Solo le cavie «suscettibili» a questo tipo di stress hanno mostrato comportamenti di evitamento sociale, insieme alle alterazioni elettrofisiologiche nella corteccia prefrontale. Le cavie «resilienti» o non esposte allo stress non hanno invece mostrato tali modifiche, suggerendo un legame diretto tra vulnerabilità allo stress e ridotta eccitabilità neuronale.
La corteccia prefrontale mediale è una delle aree cerebrali più colpite nei disturbi depressivi, e le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva che la coinvolgono (come la stimolazione magnetica transcranica) hanno già dimostrato un effetto antidepressivo. I nuovi dati forniscono una base biologica per comprendere perché tali terapie risultino efficaci e indicano i canali del potassio come potenziali bersagli farmacologici.