1994: l'’informazione capillare dei settimanali locali nel disastro

A 30 anni dall'alluvione che devastò il nostro territorio

Claudio Bo / r.f. 15/11/2024
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Foto dell'alluvione

Pioveva a dirotto, era un sabato sera, il 5 novembre del 1994. Con Marina stavamo perlustrando la casa di Piazza che avevamo appena comprato e valutavamo i lavori da fare. Lei era ancora un po’ perplessa, mentre io la vedevo già come sarebbe diventata senza, fra l’altro, grossi interventi.
Alle nostre parole si confondeva sempre di più lo scroscio rabbioso della pioggia come se un fiume precipitasse dal cielo.
Per tutto il giorno si erano susseguiti i messaggi di allerta e di inondazioni. “Sarà meglio tornare a casa” ci dicemmo “vai a vedere che chiudono i ponti”.
Noi abitavamo dall’altra parte dell’Ellero, ma non pensavamo sul serio di rischiare di non attraversare. Avevo lasciato l’auto in un rettangolo verde che poi sarebbe diventato il nostro piccolo giardino, ma quando tentai di salire scivolai finendo con le gambe sotto la vettura dove si era formato un buco dilavato dalla pioggia.
La cosa si fa seria, pensai, e partimmo subito. A Breo corso Statuto sembrava un fiume e noi attraversammo il ponte Nazionale poco prima che lo chiudessero. Appena a casa accesi la televisione e appresi del disastro.
Ero da poco direttore di “Provincia granda”, allora il settimanale superava le 17 mila copie, non c’era il web, il giornale poteva essere una delle poche fonti di informazione capillare. Dovevamo uscire il più presto possibile. Per prima cosa telefonai a Raffaele Sasso che era già sul posto a Ceva e scattava foto a ripetizione raccogliendo le prime notizie.
Ci accordammo in un baleno: dobbiamo uscire martedì mattina col giornale completo, con le foto e le cronache del nostro territorio, il bilancio delle vittime e dei danni, le informazioni utili per i soccorsi. In un giro di telefonate tutti i collaboratori erano avvertiti, editore compreso per le questioni logistiche.
Tutti iniziammo a produrre materiale, articoli e foto già domenica. Lunedì fu un lavoro febbrile sino a tarda notte. Il giornale martedì mattina era stampato e Rai 3 in un servizio da Ceva mostrava la nostra prima pagina che titolava a caratteri cubitali “Inferno di fango”.
I giorni successivi l’alluvione si era fermata, ma non l’alluvione delle notizie drammatiche: le vittime trascinate via dalle acque, le borgate distrutte, i danni esorbitanti. E anche storie di una tristezza infinita, come quella del figlio travolto con la sua auto nella Fondovalle mentre andava a comprare le medicine per sua madre, o quella dell’eroico Taricco di Narzole, sceso nella piena per soccorrere un automobilista e ghermito dalle acque dopo averlo messo in salvo.
Allora la “Protezione Civile” era agli inizi, non esisteva il Centro di coordinamento che venne poi istituito a livello di Comune, Provincia e Regione, per avere notizie bisognava telefonare ai Comuni sperando di trovare qualcuno, o ai sindaci a casa, i telefoni cellulari non erano ancora così diffusi. I quotidiani sommersi dalle notizie non entravano in concorrenza con noi perché il settimanale proponeva un ventaglio di informazioni sull’intero territorio, quello che forse oggi proporrebbe il web, ma non in modo così articolato e organizzato.
In sostanza tutti i settimanali locali svolsero un ruolo importantissimo, non solo per informare, ma anche per cercare di mitigare le più profonde ferite inferte dall’alluvione.
Anche noi proponemmo una raccolta di fondi che ebbe un successo straordinario individuando, poi, i destinatari in base a criteri rapportati anche alla storia o all’impossibilità di accedere ad altri rimborsi.
Fra questi ricordo il dancing che a Bastia era sul greto del fiume per cui era stato spazzato via dalle acque. Un ritrovo d’altri tempi frequentato da coppie non più giovani a cui veniva regalata musica e nostalgia.

L’alluvione negli occhi di un sedicenne

Che può rimanere, nei ricordi di un sedicenne monregalese, di una delle più grandi catastrofi della storia del nostro territorio? Allora, come gran parte dei ragazzi della mia età, ero distratto, forse superficiale; sicuramente molto meno interessato ai fatti del nostro piccolo mondo di quanto non lo sia poi diventato.
Ma ho ricordi molto vivi, diapositive che si materializzano ancor oggi chiaramente se chiudo gli occhi e riaccendo il proiettore della memoria.
Il primo ha come protagonisti noi, studenti all’ITIS, al Borgato, che all’intervallo ci avviciniamo all’Ellero che ci scorreva praticamente sotto i piedi, con l’avventatezza tipica di quell’età, ma caratteristica – anche – di chi non è ben consapevole di cosa stia succedendo. Un Ellero già gonfio e tetro nei colori, un Ellero che, urlante, tracimerà nel piazzale della scuola, ne invaderà, al piano terra, i laboratori. Arrivò presto la comunicazione – chissà come, questo sinceramente non lo ricordo – che la scuola sarebbe stata chiusa, ma non ce la sentimmo, in quel frangente, di esultare, perché c’era già chi disperava. Riavvolgendo questo nastro dei ricordi viene immediatamente da tracciare il parallelo con i giorni nostri, quando gli amministratori alle prime avvisaglie di allerta gialla chiudono tutto. Non gliene facciamo una colpa.
Quell’autunno del ‘94 oggi sembra ormai preistoria, dal punto di vista della comunicazione: le notizie sulla grande alluvione ci arrivavano dai TG regionali, dalle telefonate ancorché complicate, dal tam tam dei passaparola. A noi sedicenni sembrava quasi impossibile di trovarci nostro malgrado protagonisti – coi riflettori del mondo puntati addosso – di quello che è a tutti gli effetti qualcosa più grande di noi. Ecco allora il secondo ricordo, legato alla nostra necessità di vedere, toccare con mano, respirare da vicino il disastro. Chiamiamola curiosità morbosa. In uno dei giorni successivi andai con mio padre “a vedere”, nella bassa Langa a noi così vicina, cosa era rimasto dopo l’onda di piena. Fotografammo ponti abbattuti, salimmo verso Carrù per gettare l’occhio su una Clavesana inghiottita dal fango. Come noi, su quella balconata che si affacciava sulla disperazione, sulla morte, c’erano altre persone. Passò una camionetta, un uomo era in piedi sul cassone. Lo rivedo ancora oggi, sfatto, con i suoi stivaloni, pure lui sopraffatto dal fango. Brandiva in mano una pala. Ci urlò un insulto irriferibile sulle colonne di un giornale. Con voce alterata, stridula, squarciò quel silenzio, e ci invitò a scendere, a brandire anche noi la nostra pala, a dare una mano.
Con l’operosità che ci è propria, quella gente si risollevò – dobbiamo dirlo, anche senza il nostro aiuto -. Ma quelle immagini, che dalla spensierata incoscienza più pura mi portarono ad una drammatica, angosciante consapevolezza, accompagnano ancora oggi i miei pensieri.

 

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AUT. TRIB. CUNEO n° 688 del 20/12/23
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