Aeroporto di Malpensa, ore 7.20 del mattino, sono in fila per l’imbarco. Controllo sul biglietto il numero di posto, per assicurarmi di aver preso il solito lato finestrino. “… Ciaooo, come sta Luca, ha fatto la visita? Ah deve fare la colonscopia?”. “Non puoi capire, si è ingozzato tutti i giorni che ha passato qui da noi”. Non era una conversazione live, bensì una videochiamata del mio vicino, tra valige e borsoni durante il lento e incedere verso il gate. L’incubo in dolby surround continua. “Anche io mi sto già leccando i baffi, guarda che mi fermo un giorno in più solo per venire a cena da te. Sto già sbavando!”. Il signore si agita, con una mano tiene lo smartphone davanti alla faccia, con l’altra spinge il trolley, ma è ora di mostrare i documenti al desk. Dietro sempre io, che non riesco neppure a sentire i miei pensieri. “Siamo ai controlli, ora ti lascio, I love youuuuu, se non fanno come Schettino ci vediamo domani sera”.
A dispetto della grottesca ironia - che all’interno di uno scalo nessuno vorrebbe ascoltare - l’uomo sale sull’aereo e finalmente trova pace, regalandola anche ai timpani degli astanti.
Anche l’ultimo baluardo dell’offline, i voli di linea, non sembra più reggere contro la tracotanza dell’abuso digitale. Alcuni danno la colpa al progresso, ma la tecnologia non è né educata né villana. Nonostante imperi la cultura dell’algoritmo, possiamo ancora contare sul libero arbitrio. Eppure siamo tutti diventati spettatori inconsapevoli delle nostre cattive abitudini digitali.
Non si tratta solo di bon ton, videochiamate, selfie e vocali ci hanno nel tempo abituati ad entrare nelle vite degli altri, per non parlare del rischio di entrare per sbaglio in una diretta Instagram, in un video o in una recensione di qualche youtuber, o aspirante tale. Senza contare la serie infinita di telefonate urlate che ignorano totalmente il diritto alla riservatezza. Un diritto al quale dovrebbe corrispondere un dovere, un senso civico che diamo per scontato solo perché davanti ad uno schermo.
In aereo il mio schermo è sempre stato il finestrino, sin da giovane. Un tempo sospeso, tra le nuvole, con un grande valore aggiunto: l’obbligo di spegnere i device. Una volta atterrati tutti riprendono in mano gli smartphone. Tutti con l’urgenza di condividere la notizia di aver toccato terra.
Con le solite acrobazie per recupero dei bagagli dalle cappelliere, si chiude così il mio volo da Milano a Palermo, per rispondere ad un invito per un dibattito sul benessere digitale delle nuove generazioni.
Come educatore e come padre mi chiedo spesso come mai, ad un costante aumento degli incontri sulla sicurezza online, non corrisponda un calo della violenza in Rete. Non passa giorno in cui non veniamo a conoscenza di studi e ricerche che parlano di dipendenza dal web e dei danni derivanti da un’esposizione precoce e distorta agli strumenti digitali. Non passa giorno senza sensibilizzare i ragazzi, nelle scuole, negli oratori e nei centri sportivi.
Poi, però, c’è la quotidianità. Una prassi fatta di adulti che, piuttosto di rimandare una conversazione o un messaggio, mettono in piazza la propria privacy. Non importa se siamo in metropolitana, per la strada, nel vagone di un treno o dentro un negozio: tutti viviamo in un unico grande social network, dove l’importante è condividere. Cosa, perché o a discapito di chi è questione marginale. In questa urgenza collettiva si nasconde un grande vuoto emotivo, dove non sembra esserci più nulla da proteggere, ma tutto deve essere esibito. Tutto tranne il buon esempio, merce sempre più rara per i nostri figli.
Intanto il taxista che mi porta in centro approfitta del semaforo per ascoltare un vocale in cui la moglie gli raccomanda di passare in tintoria. Sorrido, almeno non si parla di colonscopie… A proposito, chissà se Luca si è poi ripreso!