Addio all'uomo della pace che scelse il nome del "poverello di Assisi"

Papa Francesco, una voce inascoltata, lascia una Chiesa in cerca di un futuro in un mondo dove tuonano le armi

22/04/2025
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Jorge Mario Bergoglio ha scelto di chiamarsi Francesco, il primo pontefice romano ad avere il coraggio di indossare il nome del «poverello d’Assisi» e di fare suo il valore della povertà nello splendore della Curia romana. Primo gesuita al soglio papale, giunto dalla periferia del mondo con l’orgogliosa obbedienza del discepoli di Ignazio di Loyola. Obbedienza al Verbo e alla Compagnia, più che alla Chiesa di Roma, non a caso il «Papa Nero» si trovò spesso in contrasto con il Vaticano. ,Appartenere a quella Compagnia di missionari che in mezzo millennio si è propagata in tutto il mondo ha ovviamente lasciato il segno nel pontificato di Francesco, in primo luogo nel profondo senso del dovere. Basti guardare alla sua morte, avvenuta il giorno dopo la benedizione pasquale, nel cuore dell’anno liturgico.
A inizio aprile avevo scritto un articolo su Francesco (ne riprendo alcune parti) sottolineando gli aspetti salienti della figura. Intuivo, come tutti, che il sui pontificato stava volgendo al termine, lo vedevo ormai debole e minato dal male, eppure mi aveva colpito la parola con cui aveva esordito dopo il ricovero: Pace.
Pontefice inascoltato, specialmente negli ultimi anni, proprio perchè aveva detto parole inaccettabili per una politica mondiale ormai votata alla guerra e alle armi. Aveva detto che la pace veniva prima di tutto, perchè è la fine della barbarie, che per la pace si può anche sacrificare l’orgoglio, che non vi è disonore nella resa. Aveva detto che la bandiera bianca può anche essere un simbolo di pace e che non lede la dignità di chi ha combattuto.
E proprio a Pasqua aveva «sparato a zero» contro il riarmo, la guerra dei potenti, la logica della supremazia, la pervicacia di chi non fa il possibile e l’impossibile per risparmiare vite umane.
Cose inaccettabili mentre  sferragliano le fabbriche della morte a pieno regime. Io mi inchino alla sua voce profetica ignorata.
Ovviamente ora gli ipocriti che non lo avevano ascoltato e non lo avrebbero mai ascoltato, lo piangeranno.
Il suo pontificato ha creato profonde spaccature nella Curia, però Il Collegio Cardinalizio è composto da 135 elettori, di cui 133 sono stati nominati da Bergoglio. Questo non significa che siano tutti suoi partigiani e che formino uh nucleo compatto su un eventuale successore. Ma sta di fatto che in questi anni la vecchia guardia per età o per decesso non fa più parte degli elettori. Gli ultimi ventuno cardinali creati da Bergoglio hanno ricevuto la porpora lo scorso dicembre. Allora si disse che la Chiesa era divenuta, definitivamente, bergogliana. Ma non è detto che “bergogliana” significhi esecutrice pedissequa delle indicazioni di Bergoglio: lo spirito dei tempi – e quello della sinodalità appena enunciata, lo scorso ottobre – non è quello in cui un Pontefice detta e gli altri eseguono. La Chiesa di Bergoglio è Chiesa di energie liberate, quasi scatenate, di fraternità molto dialettica, di polemiche e annunci. Libri e interviste, mugugni e dubbi. Vitalità. Più che espressione di gerarchia, assemblea permanente in cui tutte le voci si sentono, tutte le opinioni sono enunciate. Poi verrà il momento della sintesi, ma quel che conta in questa prospettiva è l’avvio del processo, non la sua conclusione. Che mille fiori sboccino, che mille scuole aprano.
Quello di Francesco è stato un pontificato controverso fatto di aperture, ma anche di richiami all’ortodossia, un equilibrio che, però, potremmo definire coraggioso e militante, caratteristico di un gesuita.
Non a caso al partito dei cattolici più ortodossi (che mal digeriscono la sua comunicazione franca e poco curiale) si è anche aggiunto un partito dei delusi che, magari, si attendevano maggiori aperture, anche rivoluzionarie, come lasciavano pensare i suoi esordi. Nonostante questo, la sua figura è sempre stata esemplare, specialmente in questi tempi atroci in cui la diplomazia viene lasciata alla forza delle armi e dopo 80 anni di pace l’Europa pensa a riarmarsi, paventa una guerra, ma quasi la istiga.
Francesco ha parlato di Pace con determinazione, cocciutaggine, persino contro ogni logica. Forse per questo è rimasto inascoltato.
Come altri suoi predecessori, alla fine ha incarnato il dolore, quello umanissimo, ma anche quello inumano della sofferenza senza speranza. Il dolore che in tanti casi accompagna i giorni sino alla fine e che può solo venire mitigato, ma non sconfitto. Ma la sofferenza non viene da Dio, non è un’espiazione o una santificazione. Il dolore, come la morte, accomunano le genti, così come la gioia, l’amore, la vita. Da Dio provengono la consolazione e il perdono, per Francesco, come per tutti noi.
Come cristiano, anche se non cattolico, ho sempre visto in lui un uomo di Fede che ha fatto quello che hanno fatto molti cristiani: ad un certo punto della sua vita si è convertito, non tanto ad una confessione religiosa (a cui già apparteneva) ma alla militanza in Cristo. In questi cristiani la Fede si vede, perché trabocca e contagia.
Papa Francesco, piemontese d’Argentina, che ha “risvegliato” tanti cattolici sin dalle prime frasi, chiamandoli alla preghiera (quella comune con e per i fratelli) e recitando le parole che Gesù ci ha insegnato.
Anch’io in questi anni ho pregato con lui e per lui, così come, ormai, grazie a Dio, si prega fra cristiani: nella certezza che Dio non solo ci ascolta, ma è lì, in mezzo a noi. Se l’ecumenismo di questi decenni ci ha insegnato qualcosa, infatti, è proprio la potenza vivificante della preghiera, capace di soverchiare le estenuanti dispute teologiche, insormontabili se non si è disposti ad accettare che la Chiesa di Cristo è altra cosa dalle nostre chiese degli uomini.
Per noi protestanti Bergoglio è stato solamente il capo dei cattolici, non certo l’emissario di Dio in terra o il successore di Pietro. Ma, per la verità, in lui io ho sempre visto qualcosa di molto più importante: un fratello in Cristo e un maestro nella Fede.
E siccome noi tutti sappiamo di essere gli immeritevoli destinatari dell’amore smisurato di Dio, la Parola non può che essere portata con amore, anche nell’atteggiamento, nei suoi contenuti più rivoluzionari, quelli della letizia, della gioia e della speranza: è lì che risiede il paradosso della Fede.
Per questo Bergoglio nel suo pontificato ha voluto richiamarsi a Francesco (e anche a Valdo, diremmo noi) guardando nell’altro principalmente il fratello, non il peccatore, non il discepolo e, meno che mai, l’avversario. È da questa benevolenza che parte l’amore che è la scoperta della gioia della condivisione.
Amato dai fedeli perchè vicino alla Parola, anche se non è mai stato un teologo. Ad affascinare le folle è stato il modo di porre quella Parola, con semplicità, quasi con complicità, verso i fratelli accomunati dallo stesso destino di imperfezione, tutti bisognosi di preghiera e di benedizione, primo fra tutti lui.
È un atteggiamento diffuso fra i pastori di alcune confessioni protestanti (specialmente in Italia) e fra i sacerdoti cattolici che vivono la propria missione in mezzo alle classi più umili, ma non è mai stato, sinora, un atteggiamento consono alla curia romana, neppure nei Pontefici più umani e vicini alla gente, come Woytila e Roncalli.
Lo stile di Francesco, insomma, è stato uno stile pastorale che ha sortito l’effetto di far sentire al disincantato popolo dei credenti secolarizzati il calore del Verbo. In qualche modo è uno stile profetico perché induce alla conversione, perché avvicina a Cristo.
In duemila anni di storia le chiese cristiane hanno perpetrato un costante tradimento della Parola: hanno scelto il potere, la sopraffazione, la ricchezza, la violenza e l’odio. Esattamente quello che Gesù aborriva.  Ma in questi duemila anni lo Spirito Santo ha suscitato la voce profetica di tanti credenti, ha dato loro la forza di proclamare le verità e di ricondurre i cristiani alla purezza evangelica. L’elenco dei nomi potrebbe essere lunghissimo, a me piace ricordare Agostino, Valdo, Francesco, Lutero, Wesley, Filippo Neri, Madre Teresa, Martin Luther King, Bonhoeffer, Chiara Lubich… ma ognuno di noi potrebbe aggiungerne a decine.
Se ancora oggi, nonostante tutto, Cristo guida i nostri passi e le nostre coscienze, lo dobbiamo a questi profeti, talvolta umili, talvolta inascoltati, ma sempre guidati da Dio.
Papa Francesco è stato a capo della chiesa cattolica in un momento drammatico irto di ombre, di guerre e di scandali, di misteri e segreti proprio mentre nel mondo i cristiani, di tutte le confessioni, vengono attaccati e martirizzati.
Non so se sia stato un riformatore. Ricordo l’immagine di Bergoglio e Ratzinger seduti attorno ad un tavolo pieno di faldoni e documenti, sembrava rivelatrice: non tanto un passaggio di consegne, ma un vero piano d’azione. Francamente non so se si sia davvero sviluppato all’interno di una Curia irta di trappole e diffidenze.
Per non parlare dell’urgenza dell’ecumenismo che è fraternità in Cristo.
Del resto i valdesi, presenti da un secolo e mezzo in Argentina e Uruguay, gli erano tutt’altro che sconosciuti: sviluppò infatti, come scriveva su “Riforma” Luca Negro, una intensa relazione di amicizia con il pastore valdese e professore di teologia Norberto Bertón, scomparso nel 2010. Negli ultimi anni di vita Bertón, malato e non più autosufficiente, fu invitato da Bergoglio a vivere in una casa di riposo per preti anziani; nel 2006 lo insignì del premio «Juntos Educar», istituito dall’arcidiocesi di Buenos Aires come riconoscimento dell’impegno per la promozione della cultura e dell’educazione.
Pertanto mi unisco al mondo dando l’estremo saluto a Bergoglio, uomo di Fede che si è mescolato agli altri, ne ha condiviso il dolore e i limiti, portatore del messaggio della gioia, del perdono e della speranza. Un uomo che ha saputo essere come tutti i convertiti e i credenti: uno strumento nelle mani di Dio.
Claudio Bo
 
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