Così Bucci ha battuto la macchina da guerra del Pd che aveva già vinto

I dem avevano messo in campo una folta squadra di professionisti e ingenti risorse per vincere in Liguria

Diego Pistacchi 30/10/2024
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Andrea Orlando, lo sconfitto

Le frasi dei politici a volte dicono tutto. Nella lunga maratona dello spoglio, Brando Benifei, eurodeputato spezzino del Pd, tra una professione di ottimismo e l’altra, diceva:«Anche essere qui a giocarci un testa a testa, è già un grande risultato». E ancora: «A Genova abbiamo vinto». Traduzione immediata dal politichese: «Anche oggi vinciamo domani».

Un po’ come quandoAndrea Orlando, negli ultimi giorni di campagna elettorale, provava ad assicurare che il voto non aveva valenza nazionale. Che Elly Schlein - cui ormai mandavano all’indirizzo del point dem di Genova anche l’avviso di sfratto dalla segreteria del Pd - era lì in pianta stabile per caso. Che Conte, Bonelli, Fratoianni e compagni fossero capitati in Liguria contemporaneamente per uno scherzo del destino. Soprattutto che il Pd avesse messo in campo, praticamente tutta per Orlando, una macchina potentissima dedicata alla comunicazione e alla propaganda. Una squadra di professionisti con grande disponibilità economica, cui nel tempo si è aggiunto anche il sostegno di società americana che hanno iniettato dollari freschi per l’ultima spinta social. Il tutto mentre il mantra era quello di chiedere a Bucci chi pagasse spese mai fatte.

Una macchina che ha imboccato con decisione la strada sbagliata della demonizzazione dell’avversario, della centralizzazione della campagna anti Toti, dell’ideologizzazione di qualsiasi tema, a partire dalla strumentalizzazione della frase di Bucci sui figli. Una macchina che ha messo in moto anche tutto il mondo mediatico schierato nella battaglia campale, culminato nella giornalisticamente inutile puntata di Report a urne aperte.

Come in una sfida di Coppa America, l’equipaggio di Marco Bucci, inferiore per numero e per mezzi (oltre che per voti, con il -6% al primo rilevamento dei sondaggi un mese e mezzo fa), senza supporto dai partiti tradizionali, ha lasciato andare l’avversario per inseguire un altro vento. E quando lo ha avuto in poppa, ha visto la strambata frettolosa degli Orlando boys (and girls, che sennò s’offendono per la parità di genere) che tornavano sul loro campo di regata, perfino buttando via gli endorsement dei ministri stranieri per copiare le clip con i cittadini liguri «qualsiasi» che da giorni si schieravano per Bucci tra un caffè servito al banco e un taglio di capelli.

Come tutte le vittorie, anche quella di Bucci ha visto spuntare tanti padri putativi, così come nel campo opposto (quello largo nel senso di non affollato) si sono cercati i diversi killer rei di aver lasciato orfana la sconfitta di Orlando e di Elly Schlein. Tutti a dare la colpa al Movimento con più stelle che punti percentuali per aver cacciato Italia Viva, o per aver scontato la concorrenza di Nicola Morra (in realtà non arrivato neppure all’1%). La risposta a tutti i discorsi sta nei numeri: Bucci ha ottenuto quasi 20mila voti in più della sua coalizione, Orlando 13.400 in meno dei partiti che lo sostenevano. La differenza vera l’ha fatta il candidato, indigesto alla sinistra cui si è autoimposto con diversi ultimatum Orlando, capace di pescare voti anche oltre i partiti di centrodestra Bucci.

Ennesima autocertificazione di un fallimento della segreteria nazionale Pd e di una distanza del partito locale dalla base. Come conferma il fatto che i primi tre eletti (Armando Sanna, Katia Piccardo e Federico Romeo) sono o sono stati sindaci o presidenti di Municipio che hanno aumentato di gran lunga le preferenze, non dirigenti di partito, tanto che Simone D’Angelo, segretario genovese, è finito quarto, spuntandola per un pugno di voti su Luca Garibaldi, capogruppo uscente in Regione, la cui politica di opposizione non è stata evidentemente apprezzata. Non regge neppure la scusa della frammentazione. Nove candidati presidenti, meno di quattro anni fa, ma soprattutto di fatto ininfluenti laddove il terzo classificato si è fermato allo 0,88%.

Quella sfida iniziata quasi come un allenamento estivo di una squadra da Champions contro una rappresentativa locale rabberciata, senza portiere e con l’arbitro che prima della partita espelle il portiere e capitano locale, è diventata uno spareggio salvezza perso miseramente. Con i teorici fuoriclasse sostituiti sotto i fischi del pubblico per quanto hanno giocato male. Un esempio su tutti, Ferruccio Sansa, scelto quattro anni fa dalla sinistra come suo campione contro Toti, leader in pectore dell’opposizione, non è stato trombato perché la sua lista(Alleanza Verdi Sinistra) a Genova è finita terza della coalizione, ma perché non è neppure arrivato primo tra i suoi. Non è neppure riuscito a prendere un voto per ogni volta che dai banchi di via Fieschi ha urlato contro il malaffare, lo spreco di denaro pubblico o denunciato il mortaio di pesto sul Tamigi. Battuto dalla sua collega di lista Selena Candia. «La mia esperienza politica finisce qui. Del resto non credo proprio che questo fosse il mio mondo», ha annunciato ieri a mezzo social lo stesso Sansa. A parte la storia della volpe e l’uva dove è chiaro almeno che il soggetto «uva» si intende riferito all’esperienza politica, il giornalista del Fatto Quotidiano rischia di essere l’unico ad aver ammesso la fine della carriera.

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