(Adnkronos) - Federigo Argentieri, professore di scienze politiche e direttore del Guarini Institute for Public Affairs della John Cabot University, è stato nel comitato redazionale di “Limes”, la rivista di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo, sin dalla sua fondazione nel 1993. Ma il mese scorso ha inviato un telegramma, insieme a Franz Giustincich e Giorgio Arfaras (che faceva parte del consiglio scientifico), per chiedere di essere rimosso. Un piccolo scossone nella prima pagina della rivista, che finora era stata piuttosto immutabile, così immutabile che si possono contare almeno tre morti (Furio Colombo dal 2025, Luigi Vittorio Ferraris dal 2018 e Luciano Antonetti addirittura dal 2012), senza che i nomi siano accompagnati da una piccola croce o una losanga come si usa in questi casi.
Professore, partiamo dalla notizia. Lei ha deciso di uscire dal consiglio redazionale di Limes. Perché proprio ora?
Siamo in una fase cruciale, probabilmente la più difficile per l’Ucraina dall’inizio della guerra, non tanto sul piano militare quanto su quello diplomatico e internazionale. Con gli Stati Uniti che si svincolano dalla Nato, che attaccano l’Unione europea apertamente, e con un allineamento sempre più evidente tra America e Russia, questo è il momento in cui bisogna fare scelte chiare, senza ambiguità.
In questo contesto ho ritenuto che non fosse più ammissibile che il mio nome comparisse nel tamburino di Limes.
Parla di una decisione politica e morale, non personale.
Non si tratta di opportunismo né di “saltare sul carro del vincitore”, anche perché l’Ucraina oggi non è certo il vincitore. È una scelta di coerenza. Io ho scritto poco per Limes, anche perché il suo approccio geopolitico – centrato quasi esclusivamente sui rapporti di forza – non mi è mai stato del tutto congeniale. Ma il punto non è questo. Il vero problema è il pregiudizio strutturale che la rivista ha nei confronti dell’Ucraina da oltre vent’anni.
Vent’anni sono tanti. Quando individua la svolta?
La svolta è chiarissima: 2004, la Rivoluzione arancione. Da lì in poi Limes assume una postura costantemente diffidente, se non apertamente ostile, verso l’Ucraina. È lo stesso momento in cui esce in Italia “Raccolto di dolore” di Robert Conquest sulla carestia staliniana, libro che ho curato e prefato dopo averlo letteralmente fatto uscire da un cassetto dove era stato relegato per anni. E cosa fa Limes? Pubblica a puntate – poi per fortuna solo una – “L’autobus di Stalin” di Antonio Pennacchi: un’orrenda apologia cinica del dittatore, mascherata da allegoria grottesca. Un bravo scrittore che conosce bene le dinamiche dell’Agro pontino ma ben poco quelle sovietiche, che si inerpica in un esercizio davvero incomprensibile.
Un affronto personale?
Lo fu. Non solo sul piano scientifico e morale, ma anche umano. All’epoca io e Lucio Caracciolo eravamo amici da vent’anni. Non una conoscenza superficiale. Vedere ridicolizzata la tragedia della collettivizzazione e della carestia ucraina in quel modo fu per me inaccettabile. Ci fu una protesta formale dell’Associazione italiana di studi ucrainistici e anche pressioni interne: la seconda puntata non uscì. Ma la linea non cambiò.
Lei però è rimasto dentro Limes per altri vent’anni. E nella rivista hanno scritto spesso autori decisamente non filo-russi.
Per una combinazione di fattori. Perché si potevano trovare anche analisi condivisibili, perché nessuno ha mai messo in discussione la mia presenza. I legami personali, come spesso accade, sono duri a morire. E poi c’era sempre la speranza, forse ingenua, di un cambio di rotta. Cambio che non c’è mai stato, anzi: dal 2014 in poi le cose sono peggiorate.
Si riferisce all’annessione della Crimea e alla guerra nel Donbas.
Da allora Limes ha iniziato a pubblicare sistematicamente mappe con la Crimea colorata come Russia, spesso anche il Donbas. Alla protesta ripetuta dell’ambasciatore ucraino, Caracciolo rispondeva: “Se cambierà la realtà, cambieremo il colore della cartina”. È un’assurdità cartografica prima ancora che politica. Le aree contese si rappresentano come tali. Qui invece si faceva una scelta netta.
Dopo il 2022 la frattura diventa definitiva.
Alla vigilia dell’invasione del 24 febbraio 2022, Caracciolo dichiara in televisione che la Russia non avrebbe mai invaso. Una previsione clamorosamente sbagliata. Qui entra in gioco un tema fondamentale: l’accountability, una parola che in italiano non ha traduzione e forse si capisce perché. Se sei un esperto geopolitico e sbagli in modo così macroscopico, in qualche modo dovresti renderne conto. In Italia questo non accade.
E secondo lei questo ha contribuito all’attuale approccio televisivo alla guerra, in cui si cerca una specie di par condicio tra chi difende l’Ucraina e chi gli interessi di Mosca?
È una nube tossica mediatica che avvelena il pubblico e finisce per influenzare anche la politica. Limes e Caracciolo hanno una responsabilità maggiore di tanti ciarlatani televisivi proprio perché il loro livello culturale è elevato. Quando una fonte autorevole contribuisce alla disinformazione, il danno è più grave. Negli altri paesi europei, Francia, Regno Unito, Germania, Spagna, non c’è la carrellata di figure improponibili che oggi trovano grande spazio in certi programmi. Neanche Fox News è così schierata, solo in Russia si vedono le trasmissioni che ci sono in Italia. I miei colleghi stranieri sono stupefatti davanti a questa, chiamiamola, unicità.
Però non tutta l’informazione televisiva ospita filo-russi o figure impreparate.
Si salvano alcuni programmi del mattino, quando però l’audience totale è un quarto di quella serale, come a dire: tra pochi si possono fare riflessioni più sensate, mentre quando il pubblico cresce bisogna sparare panzane. Per fortuna ci sono i due canali all news, Rainews24 e Skytg24, e soprattutto la radio, con in testa l’ottima Rai Radio1, seguita da Radio24 e altri canali che fanno informazione in modo corretto.
La sua non è l’unica uscita da Limes.
Franz Giustincich, giornalista e analista geopolitico, storico collaboratore della rivista e profondo conoscitore dell’Europa centro-orientale, lascia il consiglio redazionale.
Giorgio Arfaras, economista, vicepresidente del Centro Einaudi e commentatore economico del Corriere della Sera, esce invece dal consiglio scientifico.
In conclusione: è una rottura definitiva o un atto di testimonianza?
È un atto di coerenza. Non mi interessano le rotture simboliche, ma le responsabilità intellettuali sì. In un momento come questo, non si può restare dentro una cornice che contribuisce a deformare la comprensione della realtà. Per me, semplicemente, non era più ammissibile. (di Giorgio Rutelli)
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